Cenni Storici
L’arrivo degli albanesi in Italia coincide con due avvenimenti storici molto gravi per la Chiesa di Roma:
– Lo scisma d’Oriente con la Chiesa ortodossa di Costantinopoli (sec. XI);
– Lo scisma d’Occidente con la Chiesa tedesca (sec. XVI), capeggiato dal monaco agostiniano Martin Lutero.
Il panorama storico-sociale fra Oriente e Occidente, alla venuta degli albanesi in Italia – dopo la metà del XV secolo – si presenta denso di situazioni contrastanti. Se l’Europa occidentale apre le porte al Rinascimento, uno dei momenti più ricchi di fermenti culturali in cui tutte le arti, la scienza e la filosofia, trovano la loro più alta espressione e realizzazione, l’Europa orientale è continuamente minacciata dalle invasioni turche e ogni sforzo di evitarle sarà inutile in quanto verranno meno gli aiuti dall’Occidente, per via dello scisma del 1054, per cui la stessa città di Costantinopoli sarà costretta a capitolare nel 1453.
Anche l’Albania subisce le minacce delle orde ottomane, ma grazie a uno dei grandi eroi che la storia ricordi, Giorgio Kastriota Skanderbeg, difensore della fede e della libertà, viene scongiurata l’invasione turca per circa ventiquattro anni. Ma con la sua morte, l’Albania entrerà in una lenta agonia fino a che i turchi la insedieranno definitivamente con tutta la loro ferocia, alimentata per anni di odio nei confronti dell’eroe albanese. Diverse famiglie lasceranno la terra d’Albania per raggiungere le coste venete, ma soprattutto la Calabria dove saranno accolte in qualità di ospiti, grazie all’antica amicizia tra Skanderbeg e i re di Napoli, della Casa di Aragona. Il distacco dalla propria terra d’origine sarà doloroso per le famiglie, che tutto hanno dovuto abbandonare. Ma tutto ciò che è stato perduto in patria, sarà ripagato dal ricco patrimonio spirituale e culturale che gli albanesi porteranno in Italia: la fede dei Padri, la lingua antica dei Pelasgi, il rito bizantino, le tradizioni, i canti. Ha inizio, dunque, la diaspora albanese, “gjaku yne i shprishur” (il nostro sangue disperso), la travagliata e lunga emigrazione (dal 1468 al 1744) che porterà gli albanesi in vari Stati europei, senza mai però dimenticare l’antica radice etnica e l’appartenenza alla Chiesa ortodossa.
Gli albanesi, sbarcati in Calabria, troveranno una terra logorata dalle lotte politiche tra Aragonesi e Angioini, dall’avidità dei baroni feudali, dai frequenti terremoti, in particolare quello del 1456, registrato alla vigilia del loro arrivo, che mieterà migliaia di vittime. È uno dei periodi della storia calabrese di forte decadenza civile ed economica. L’inserimento sociale dei profughi albanesi, se da una parte determinerà una nuova espansione demografica, dopo lo spopolamento causato dal terremoto del 1456, dall’altra, creerà diffidenza e incomprensione con gli abitanti del luogo, i quali non capiscono la lingua, il rito, il modus vivendi di questa gente venuta da lontano. I baroni feudali ed ecclesiastici sfrutteranno la miseria degli albanesi inserendoli nei lavori più umili e controllandoli a vista, perché ritenuti “bizzarri e rozzi” a causa dei loro “riti magici”. Il clero li ostacolerà maggiormente, per via dello scisma d’Oriente del 1054; gli albanesi, infatti, alla loro venuta appartenevano ancora alla Chiesa ortodossa d’Albania, considerati quindi eretici, cioè separati da Roma.
Sono tempi difficili per gli Albanesi. Nessuno comprende la ricchezza del loro patrimonio spirituale, né immagina che essi saranno continuatori naturali- quale segno provvidenziale- della Tradizione bizantina che ormai, sul finire del XV secolo, si avvia verso la sua parabola conclusiva.
Gli albanesi a mano a mano che si inseriscono nella nuova vita sociale, iniziano a costruire le loro chiese per le funzioni liturgiche con un’impronta architettonica che ha poco di bizantino; il clero latino, infatti, cerca in tutti i modi di far dimenticare la Tradizione orientale, spesso con la forza, e di inculcare ad essi una identità sempre più latinizzata. Ma gli albanesi, giocheranno la loro sopravvivenza su tre elementi: la lingua, il rito e i canti popolari, in cui esprimeranno la coscienza nazionale. Vivranno, per le continue incomprensioni con il clero latino locale, fino agli inizi del XX secolo, una alienazione spirituale e culturale, sottoposti, com’erano, alla giurisdizione ordinaria dei vescovi latini i quali, per la loro ignoranza in materia di riti, creeranno diversi abusi nei loro confronti.
La presenza storica e spirituale degli albanesi in Italia non sarà annientata, però, dalla realtà egemone latina. Essa coinvolgerà la Santa Sede che, grazie all’interessamento di alcuni pontefici, sosterrà con diversi documenti la sopravvivenza dell’identità spirituale della Chiesa italo-albanese. Saranno infatti, i pontefici di Roma a interessarsi delle gravi condizioni dei profughi albanesi, sin dalla loro venuta in Italia e permettere la sopravvivenza del loro rito. Da Pio IV a Gregorio XIV, da Leone X a Paolo III uscirà la maggior parte dei documenti amministrativi del XVI secolo, a testimonianza degli interventi papali per la difesa del rito bizantino. Sarà il XX secolo ha segnare la svolta storica per la comunità Italo-albanese di rito bizantino. Il 13 febbraio 1919, con la costituzione “Catholici fideles”, di papa Benedetto XV, viene canonicamente costituita l’Eparchia di Lungro. Con la costituzione dell’Eparchia, la Santa Sede non solo, dunque, risolve definitivamente un capitolo spinoso durato circa cinque secoli, ma diventa garante ufficiale per la sopravvivenza del rito bizantino della Chiesa italo-albanese, superando brillantemente i malcontenti dei vescovi latini a cui erano appartenute le parrocchie italo-albanesi prima del 1919.
Una identità etica sorretta da una propria letteratura, da una propria lingua, quella albanese, da una antica tradizione di valori umani e cristiani, che ha determinato una precisa collocazione spirituale e culturale, custodita gelosamente, nei secoli, dagli italo-albanesi. Spiccano ancora oggi, fra i valori umani:
– La gjitonia, struttura urbanistica e sociale di relazioni tra i membri di un vicinato, nella quale si stabiliscono rapporti tra le famiglie e tra i singoli, regolamentati da un antico codice;
– La besa, la parola data;
– La mikpritja, il valore dell’ospitalità;
– La vellamaja, il rito della fratellanza.
Tutti valori umani, culturali, spirituali che avranno giusto coronamento con la nascita della stessa Eparchia di rito bizantino-greco, di Lungro.
Il Collegio Greco di Roma
Come per i monaci greci del XV secolo, anche per i sacerdoti italo-albanesi dei secoli successivi si poneva il problema della preparazione culturale, teologica e pastorale. Le parole di Mons. Filoteto Zassi, Arcivescovo di Durazzo e vescovo ordinante nel collegio greco di Roma, rendono l’idea della situazione: “L’ordinati dell’italo-greci per il passato sono stati per lo più ignorantissimi, e quindi ordinati più per compassione di non mandarli indietro dopo essersi portati da si lontani paesi tra mille strapazzi e spese, che per merito di dottrina … per lo più sono venuti tali, che ho avuto che sudare et io et altri non solamente settimane, ma mesi ancora per farli giungere al primo grado di abilità”. Per far fronte a questo scadimento nella preparazione dei preti di rito greco che avevano come maestri i sagrestani ed i preti loro predecessori, il Papa Clemente XII, dietro insistenza di Felice Samuele Rodotà — che poi diventerà il primo presidente — fonda a San Benedetto Ullano il collegio “Corsini”, dal nome gentilizio del Papa. Nel 1794 il collegio verrà trasferito a San Demetrio Corone presso la ricca Badia dei monaci basiliani. Ben presto la formazione morale ed intellettuale dei giovani che uscivano da quella scuola conferì stima e fama all’istituto, che formava i sacerdoti ed i professionisti laici dei paesi albanesi. Due anni dopo la fondazione del collegio Corsini in Calabria, ne fu fondato uno anche in Sicilia, a Palermo. In tal guisa i futuri sacerdoti delle popolazioni albanesi avevano gli istituti formativi minori nella propria terra, mentre a Roma fin dal 1577 era operante il Collegio Greco per gli studi superiori.
Nascita della Comunità di Acquaformosa
In questo contesto accaddero quegli avvenimenti che portarono alla fondazione di Acquaformosa. Per la mancanza di dati sicuri, non è possibile fissare con certezza l’anno in cui gli albanesi lasciarono la loro patria e una volta approdati sulle coste del Regno di Napoli, si stanziarono definitivamente nei territori dove successivamente hanno fondato i loro casali.
Anche per le prime vicende dei fondatori di Acquaformosa la storia ha subìto la stessa sorte. La prima prova, che in modo inequivocabile attesta la presenza degli albanesi nel territorio di Acquaformosa, è il documento “Capitolazioni degli albanesi di Acquaformosa col Monastero di Santa Maria” conservato nell’Archivio Vaticano nel codice Vaticano Latino n. 14.386 f 9 ss.
Correva l’anno del Signore 1501 quando alcuni albanesi con a capo Pellegrino Capparello, e l’abate commendatario del Monastero di Santa Maria di Acquaformosa firmarono l’atto costitutivo della nuova comunità e, nello stesso tempo, la fonte delle norme regolatrici dei rapporti tra gli albanesi e il monastero. Dunque il 1501 è la prima data certa della presenza degli albanesi nel territorio badiale, ma quando arrivarono effettivamente in quelle terre non è dato sapere. Il Tajani ed altri storici fanno risalire la partenza dalla loro terra degli albanesi, che poi s’insediarono ad Acquaformosa, tra il 1476 e il 1478, è una data probabile ma non certa. Nessuno azzarda una data per quanto riguarda l’arrivo degli albanesi nei territori del monastero. E’ presumibile che tra la data di stanziamento e le “Capitolazioni” sia trascorso solo il breve tempo necessario ai monaci per conoscere i nuovi ospiti e agli albanesi per conoscere la lingua italiana volgare che si è impiegata nella stesura del documento.
Poco si sa degli albanesi che furono i primi abitanti di Acquaformosa: indirettamente si può dedurre che tra di essi ci fosse un sacerdote. Infatti appartenevano alla Chiesa parrocchiale di Acquaformosa 8 codici greci che oggi sono custoditi nel Monastero di Grottaferrata. Si tratta di libri liturgici in uso nella Chiesa Matrice di Acquaformosa. Di questi otto codici sei sono stati copiati in Italia, mentre i primi due, afferma Mons. Francesco Bugliari, è probabile che siano stati copiati in Oriente e, precisamente nell’Epiro. Da qui portati in Italia dai profughi albanesi.
Michele Zenempisa era il sacerdote che officiava utilizzando quei codici, sia in Albania che, successivamente, in Acquaformosa. Durante una visita pastorale il vescovo Francesco Bugliari, notando questi codici e anche il resto dell’ufficiatura greca manoscritta nella Chiesa parrocchiale di Acquaformosa chiese all’allora arciprete di trasferirli tutti al Collegio greco di San Demetrio Corone, ritenuto più idoneo per custodire tali antichità. Il clero di Acquaformosa non ha avuto nessuna difficoltà ad aderire a tale richiesta. Era il 28 ottobre 1793. Ai margini di un foglio del codice, contrassegnato dal numero 272, si legge: l’Arciprete e il clero di Acquaformosa donano al Collegio questo e tutti gli altri libri corali.
Ad Acquaformosa il primo luogo dove gli albanesi edificarono il loro casale fu la località chiamata “Arioso”. Ma il luogo prescelto, che oggi segna il confine tra i territori di Acquaformosa ed Altomonte, fu ben presto abbandonato; gli albanesi si spostarono e costruirono le loro abitazioni più vicino al Monastero. Verosimilmente le prime abitazioni furono costruite a ridosso del primo oratorio degli albanesi di Acquaformosa, la Chiesa della Concezione, edificata sin dai primissimi anni del 1500.
I motivi che spinsero i primi abitanti di Acquaformosa a spostarsi da Arioso non sono certi, le ipotesi avanzate sono due. La prima giustifica lo spostamento a causa dei numerosi serpenti che infestavano quella zona; la seconda lo giustifica per le difficoltà di approvvigionamento dell’acqua. Lo spostamento in tutti i casi fu repentino, dato che già nel 1505 era in costruzione la Chiesa Matrice di San Giovanni Battista nel luogo dove tutt’oggi è ubicata. In un primo tempo l’aggregato urbano di Acquaformosa era così ristretto da non essere considerato neppure casale di Altomonte. Solo dagli scritti del giureconsulto Giovanni Paolo Galterio, riguardanti gli statuti di Altomonte del dì 15 agosto 1602, viene nominato il casale di Acquaformosa, insieme a quelli di Lungro e di Firmo, come casali di Altomonte.
Il casale di Galatro
Gli albanesi non furono i primi abitanti dei territori contigui al monastero di Acquaformosa. Secondo lo storico Zangari vicino al Monastero di santa Maria c’era il “diruto casale di Galatro”, di cui non dubbie testimonianze esistono nei registri di Carlo D’Angiò, del 1278, e di Carlo II d’Angiò del 1302. In particolare con il documento del 1302, riportato dal Russo nella Storia della diocesi di Cassano, il cui originale è andato distrutto, il Re Carlo II D’Angiò esentava per un quinquennio dal pagamento delle gabelle gli abitanti di Galatro, che intendevano ritornare ad abitare quel casale, abbandonato a causa della guerra e spettante ai cistercensi di Acquaformosa.
Il toponimo
Il nome di Acquaformosa è precedente all’insediamento albanese. Esso è da attribuire al monastero fondato nel 1195. Ciò permette di escludere che il nome sia derivato da un’esclamazione che Irina Scanderbeg fece allorchè bevve ad una fonte vicina al Monastero. Verò è che quella fonte ancora oggi conserva il nome di “Fonte della principessa”. Dai dati precedenti si rileva che Irina è vissuta nel XVI secolo, quando il nome di Acquaformosa esisteva già. É probabile che, cambiando i protagonisti, la vicenda che attribuisce il nome sia la stessa: la bontà e la purezza delle acque che qui scorrevano.
Fuochi e popolazione
Fino al 1815 i censimenti della popolazione non si facevano per abitanti, ma per fuochi. Col termine fuoco, sia nel lessico letterario, sia in quello giuridico, si indicava la famiglia. Convenzionalmente ogni fuoco, quindi ogni famiglia, veniva considerata composta da 5 persone. Gli abitanti di Acquaformosa nel 1501 erano pochi. Il De Marchis tra i documenti dei primi anni dell’insediamento contò 22 nomi, ma non riuscì a stabilire se tutti fossero dei capi famiglia, se così fosse nel 1501 il Casale di Ariosa aveva 22 fuochi.
Il regio Numeratore il 1° aprile 1543 contò 43 fuochi, per un numero approssimativo di abitanti di 135 unità. Nel 1595 i fuochi erano aumentati di poco, si contavano solo 45. Nel 1669 i fuochi censiti erano 102, per un numero di abitanti vicino alle 510 unità. Nel 1741 i fuochi erano 105, nel 1797 si contavano in numero di 124, nel 1806 i fuochi erano 200. Nel 1816 gli abitanti erano 1237, se ne contavano 1361 nel 1846. Con il 1861 iniziano i primi dati statistici del regno d’Italia. Acquaformosa in quella data contava 1661 anime di cui 835 maschi e 826 femmine. Il censimento del 1901 registrò 1562 abitanti residenti e 4 non residenti, gli abitanti erano 1812 nel 1951, 1773 nel 1967, 1379 nel 1996.